Il mio viaggio attraverso il vino italiano

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di Hugh Johnson

Raccogliere le mie riflessioni sui vini italiani, da dove vengono e dove stanno andando, è stato un compito non facile. Il raffronto con i contributi di altri paesi ha costituito una componente vitale di questo processo. Il resto del mondo prova sentimenti positivi nei confronti dell’Italia. Ama il vostro paese, le sue mode, le sue città e la sua meravigliosa cucina. Ma non vede i vini italiani come un fenomeno a sé. I vostri vini devono competere, dimostrare la loro bontà, essere più seducenti, più deliziosi, e migliori dal punto vista del rapporto fra prezzo e qualità, dei loro concorrenti. E la concorrenza, da ogni parte del mondo, si fa più dura ogni giorno che passa.

L’era moderna dei vini ha costretto ogni paese produttore a definire le sue priorità. La Francia ha scelto di rafforzare le sue tradizioni e di puntare sui suoi punti di forza, sfidando il resto del mondo a batterla sul suo terreno. Cos’altro possono fare i francesi? Hanno scoperto e coltivato la maggior parte delle varietà di uve che il mondo predilige, ed hanno inventato il concetto degli châteaux e domaines, sulla base del quale molti dei loro vini migliori continuano ad essere venduti. Possono darsi da fare per elevare la qualità dei loro vini e champagne bordeaux, burgundy, Loire e Rhône, ma non possono cambiarli. Il Nuovo Mondo compiange la Francia per questa limitazione. Dovrebbe, invece, invidiarla. Sarebbe ridicolo piantare Pinot Noir a Bordeaux, Cabernet in Borgogna, o aggiungere Syrah alla raffinata miscela che definisce un château Bordeaux. Che senso ha confondere il proprio cliente quando viene da te per uno specifico prodotto, per uno specifico sapore? La Francia ha una gamma stabile di prodotti, e un numero incredibile di produttori. Se uno fallisce, qualcun altro ne assume il ruolo, ma raramente cambia il prodotto. Questo avviene a causa delle leggi sull’Appellation Controlée? In parte sì, ma il motivo principale è la riluttanza a cambiare una ricetta che funziona. Il cliente sa cosa si aspetta. Per la Francia, cambiare questa strategia sarebbe follia.

La Germania ha una situazione storica simile – ma, ovviamente, il suo mercato interno è di gran lunga il più importante. Se ai tedeschi importasse quello che pensa il resto del mondo, riformerebbero le loro leggi sui vini. La Germania, purtroppo, è un esempio di come l’eccesso di democrazia vada a scapito della qualità. Non tanti anni fa, quando scrissi dei suoi migliori vigneti, e di come sia necessario avere pendii esposti a sud e buoni terreni in un clima così settentrionale, venni criticato da un ministro tedesco per il mio “elitismo”. Dovevo, secondo questo ministro, uguale rispetto a tutte le terre, e a tutti i coltivatori. “Lei parla di elitismo”, risposi, “ma i vostri clienti lo chiamano qualità. Non c’è da sorprendersi se di clienti ve ne sono rimasti pochi”. Fortunatamente, in Germania la qualità è stata salvata da un’organizzazione di  vinicoltori privati, la VDP, che sotto alcuni aspetti è simile al vostro Comitato, ma che è stata costretta dalle circostanze a intraprendere un’attività politica.

E che dire dei vini spagnoli? In che modo sono diversi da quelli italiani! La storia ha lasciato agli spagnoli una misera eredità. Poche varietà di vitigni, pochi nomi famosi, un numero di nicchie ecologiche molto più ridotto rispetto all’Italia. Un’uva meravigliosa, il Tempranillo, sia pure sotto molti nomi diversi, è la spina dorsale della qualità dei vini spagnoli. Alcuni dei migliori nuovi vini spagnoli saranno anche ottimi, ma sono invenzioni, non riscoperte. Storia e geografia sono entrambe più espressive in Portogallo, dove tradizioni locali e varietà di vitigni sono quasi altrettanto ricche quanto in Italia. Finora, però, fanno fatica ad emergere.

Anche la Grecia ci dimostra come varietà e qualità potenziale possono essere sepolte sotto generazioni, o addirittura secoli di inattività. La Grecia è balzata dall’oscurità ad una posizione molto promettente nel mondo del vino, grazie in larga misura alla benevolenza di Bruxelles, in poco più di un decennio. Devo citare anche l’Ungheria – e non soltanto perché mi sono attivamente interessato a quel Paese. Le tradizioni del Tokay erano troppo favolose per essere ignorate. L’Ungheria ha i vigneti e le varietà, le tradizioni e i gusti di un mercato antico e sofisticato. Quanto tempo ci vorrà per risvegliarle? Per il momento, l’Ungheria è decisamente superata dall’Austria.

Prima di passare all’Italia (e vi ringrazio per la vostra pazienza) devo dedicare qualche parola al Nuovo Mondo. Ci riserva delle sorprese, oppure già conosciamo i suoi punti di forza e quelli deboli? I due successi consolidati da tempo, California ed Australia, hanno superato la fase facile del loro sviluppo. I loro mercati non potranno crescere di molto fino a quando non ci mostreranno i loro punti di forza – e non intendo solo la gradazione alcolica. Occorrono grandi vinicoltori artigiani che dimostrino le loro uniche capacità con vini memorabili. Gli artigiani sono il segreto dell’Italia che il Nuovo Mondo deve imparare.

Nuova Zelanda, Cile, Sud Africa e Argentina ci offrono alcuni vini veramente buoni. Il loro futuro dipende dalla loro intelligente analisi del mercato. Il vino e il suo mercato sono l’uovo e la gallina. Per oltre un secolo è stato il mio Paese a dettar legge. Bordeaux, Porto, e anche lo champagne sono stati modellati così come sono oggi perché gli inglesi erano disposti a comprarli. A chi tocca ora? Robert Parker e Marvin Shanken hanno detto chiaramente quello che vogliono. I prossimi saranno i cinesi?

Veniamo, finalmente, all’Italia. Chiediamoci, per cominciare, perché tutti amano i vini italiani. Si compra la storia e la tradizione, o le tecnologie più moderne, oppure qualcosa che scaturisce dal suolo benedetto dell’Enotria accompagnato dagli aromi di prosciutto, parmigiano e mozzarella? Non può essere un fenomeno pan-italiano. Come tutti noi sappiamo, la terra dell’Italia è troppo complessa, e troppo regionale, perché questo sia vero. (E questo, a proposito, vale anche per la Francia. Provate a parlare di Bordeaux in Borgogna, o viceversa, o addirittura a ordinarne una bottiglia).

E’ facile rispondere che ce ne sono talmente tanti tipi che possono soddisfare tutte le nostre esigenze. Uno non ha bisogno di guardare altrove (eccetto, riconosciamolo, per lo champagne). Ma questa spiegazione contiene delle contraddizioni: ci sono talmente tante etichette che si finisce per perdersi. Tutti noi ammiriamo la creatività e l’orgoglio (per non parlare dell’immaginazione) che creano un’infinità di etichette differenti. Talvolta, però, ci chiediamo se non ci siano più etichette diverse che vini differenti.

Noi (cioè i consumatori) cerchiamo un appoggio solido in questa superficie incerta. Possiamo essere attratti dai solidi nomi della tradizione, e spendere i nostri soldi per  Chianti, Barolo, Valpolicella, Soave o Verdicchio. Oppure possiamo farci rassicurare da varietà di uve che crediamo di conoscere, e comprare merlot, o pinot grigio, oppure addirittura un vermentino. E’ molto probabile che la scelta sia dettata da dove siamo, così sceglieremo un Collio in Friuli, un Frascati a Roma e un Nero d’Avola in Sicilia. C’è chi si fa sedurre dalla storia: la menzione dei Medici o degli antichi greci fa uscire dal portafoglio la carta di credito. I lettori delle guide conoscono il significato dei Tre Bicchieri (anche se la maggior parte della gente non lo sa). Una parte notevole del pubblico chiederà al cameriere cosa bere, sia in Italia che all’estero. Molti onorano le tradizioni familiari in termini di vini o di provenienze regionali, e molti di più si fanno ispirare da piacevoli ricordi di vacanze in regioni vinicole. In altre parole, ci sono tanti modi di scegliere un vino quanti sono i clienti che lo vogliono. Nessun vino, e nessuna strategia di marketing, possono sperare di catturarli tutti.

Una volta chiesi ad un prominente produttore e négociant di Beaune quale fosse la ragione del successo dei vini di Borgogna – un successo che, all’epoca, non era sempre legato alla qualità. “Vendiamo un sogno”, rispose. E questo, naturalmente, è esattamente come viene venduta la maggior parte dei vini. A quell’epoca non era necessario che il Lacryma Christi fosse buono, il nome della Baia di Napoli era sufficiente a farlo vendere. Oggi il sogno ha bisogno di un sostegno tecnico. Ogni anno che passa, ci vogliono più sapore, un naso più dolce, un equilibrio migliore, tannini più fini, una finish più lunga. Poche cose possono aiutare un produttore più di avere vicini competitivi: il mercato cresce con il numero dei produttori di qualità nella zona.

L’Italia è riuscita ad entrare nel novero dei produttori di qualità superiore con la stessa facilità con cui è diventata leader nei mondi della moda, del design e della Formula Uno. Quando è venuto il momento di dare alla Toscana una o due Premier Cru, è sembrato facile. Barolo e Barbaresco necessitavano soltanto della fiducia (e a questo ci ha pensato Angelo Gaja) per entrare nel novero dei top. Analoghe mosse si possono vedere, ai nostri giorni, in Veneto e Sicilia, e probabilmente anche altrove. Si può affermare che il grande prodotto è inerente in certi vitigni? E’ limitato, ad esempio, al Nebbiolo o al Sangiovese, oppure è latente anche in certe varietà del Veneto e del Mezzogiorno, in attesa di essere massaggiato in vini di qualità stellare con tecniche innovative? Io sono convinto che sia così. Sono convinto che, fra cinquant’anni, i nostri successori ci considereranno strambi per non aver visto la grandezza di Montepulciano e dei Falanghina.

Il passo successivo è l’identificazione dei posti migliori dove coltivarli. Il progresso del Nuovo Mondo dipende dallo scoprire non solo, ad esempio, che il Cabernet Sauvignon ha un elevato potenziale in Napa Valley, ma anche nel definire quali pendii e terreni di Rutheford o Spring Mountain siano nei suoi Latours e Lafites. L’Italia ha ancora del lavoro da fare in questo campo. Conosciamo molte caratteristiche delle colline delle Langhe, ma molto meno del Chianti e della Maremma, per non parlare dell’Etna. Un giorno, speriamo presto, un maggior numero di etichette su differenti bottiglie chiarirà precisamente l’origine del vino, anno dopo anno. Queste sono informazioni più utili delle indicazioni di fantasia sulle etichette di oggi.

Per il momento, i più grandi vini italiani sono rossi. E’ inevitabile? Questa straordinaria penisola, con tutte le nicchie ecologiche offerte dalle Alpi e dagli Appennini, deve essere capace di produrre bianchi sublimi, insieme a quelli molto buoni.

Spero di non aver parlato troppo di storia. Voi conoscete il presente meglio di me. Il mio compito, in questa occasione, era quello di scrutare nella sfera di cristallo. Ma tutti hanno lucidato la sfera che ho davanti fino a renderla accecante. Riesco a vedere soltanto una luce brillante. Questo è il vostro futuro, Grande Cru d’Italia.

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