Allegrini
AllegriniBiography
Da parecchie generazioni la famiglia Allegrini ha un ruolo di primo piano nell’agricoltura della Valpolicella. Un documento del 1557, nel quale si attesta che Allegrino Allegrini è riuscito ad acquisire il diritto di sfruttare alcune fontanelle o “sorzive” di Mazzurega, frazione di Fumane, per irrigare le sue proprietà, consente di far risalire almeno al XVI secolo la loro presenza nel territorio. Ed era già allora una presenza in posizione preminente nella società locale, visto che, secondo atti e trascrizioni fra il 1616 e il 1630, gli Allegrini erano tra i più importanti proprietari terrieri della zona. Il capostipite della nuova generazione, Giovanni Allegrini, ha quindi ricevuto in eredità una secolare tradizione agricola, ma ha saputo rinnovarla diventando uno dei padri della storia enologica della sua terra. Dopo il Secondo conflitto mondiale è stato tra i primi a mettere in discussione la viticoltura tradizionale, stravolgendo senza timore le consuetudini più radicate per imboccare la strada della qualità. Sapeva il fatto suo anche in cantina: suo padre lo aveva avviato alle cure della vinificazione quando aveva appena 12 anni, e lui aveva imparato presto. Lo chiamavano “Il ragno delle botti” perché quando faceva assaggiare ai clienti i vini ancora in affinamento saltava da uno all’altro dei grandi fusti per prelevarlo. Intelligenza e passione gli permisero di produrre, fra gli anni 60 e i 70 del 1900, alcuni tra i migliori vini della Valpolicella. Il suo ultimo progetto, che non ebbe il tempo di vedere completamente realizzato, fu il reimpianto a vigneto della più qualificata e prestigiosa tenuta della Valpolicella storica, la Grola, una collina abbandonata fin dagli inizi del 1900: egli la riportò alla vita produttiva e la rese praticabile ai nuovi mezzi meccanici. Gli sono succeduti i suoi figli: scomparso prematuramente nel 2003 il primogenito, Walter, l’azienda è oggi condotta dagli altri due, Marilisa, che si occupa del marketing, e Franco, l’enologo. I loro vigneti sono tutti nelle colline della Valpolicella Classica: 70 ettari in proprietà, 20 in affitto. Con una produzione di 900mila bottiglie all’anno, l’azienda ha offerto un contributo essenziale all’affermazione in Valpolicella dell’idea di cru: ne sono una evidente espressione due rossi, la Grola e Palazzo della Torre, che sono i migliori ambasciatori del territorio nel mondo. Aggiungendovi un innovativo Amarone e La Poja, corvina in purezza tratto da un vigneto in cui questa varietà esprime tutta se stessa, gli Allegrini hanno messo in tavola un poker d’assi.
Antinori
AntinoriBiography
La famiglia Antinori si identifica con Firenze dagli inizi del Duecento, quando si trasferì da Calenzano per esercitare in città l’attività mercantile prima nel settore della seta e successivamente dei vini. L’iscrizione da parte di Giovanni di Piero Antinori all’Arte dei Vinattieri é datata 1385. Da 26 generazioni é protagonista della vitivinicoltura toscana, con iniziative che hanno anticipato i tempi: già nel 1898, con la fondazione della Fattoria dei Marchesi Lodovico e Piero Antinori, i possedimenti e le tenute agricole sono state trasformati in un’impresa moderna e organizzata. Negli ultimi 30 anni l’azienda, guidata dal marchese Piero Antinori, é diventata per fatturato complessivo il più importante gruppo vitivinicolo privato d’Italia, con una produzione di 18 milioni di bottiglie. Pur identificandosi strettamente con la Toscana, la società Marchesi Antinori possiede anche tenute in altre regioni, prima fra tutte l’Umbria, disponendo di 1.400 ettari vitati, e ha investito in aziende vinicole in vari angoli del mondo, dall’Ungheria alla California, al Cile. L’aspetto forse più significativo della produzione Antinori é la sua altissima qualità anche nei vini di prezzo più accessibile. Ma Piero Antinori si é imposto come capofila del Rinascimento enologico italiano con la creazione del Tignanello, il primo SuperTuscan scaturito dalla fusione del sangiovese con il cabernet e maturato in barrique. Ma sono parecchi i gioielli di famiglia creati durante la sua gestione: dal Solaia, nato nel Chianti come il Tignanello, al Guado al Tasso, originario invece di Bolgheri, dal Pian delle Vigne, ch’é un Brunello di Montalcino, al Cervaro della Sala, grande bianco figlio di Orvieto così come il Muffato della Sala, prototipo dei bianchi dolci da pourriture noble. Il ricambio generazionale darà in futuro all’azienda un vertice tutto al femminile: Piero Antinori ha infatti tre figlie, Albiera, Allegra e Alessia. Sarà un modo diverso per essere ancora una volta all’altezza dei tempi.
Argiolas
ArgiolasBiography
La casa vitivinicola Argiolas non ha scelto per caso il nome della famiglia come marchio: é sempre stata un’azienda a conduzione familiare fin dalla creazione a Serdiana, nel Cagliaritano, ad opera di Francesco Argiolas, nei primi anni del 1900. La memoria orale ha tramandato il ricordo che a impiantare alcuni dei suoi vigneti contribuì, durante la Prima guerra mondiale, un gruppo di prigionieri di guerra austriaci e polacchi. A dare all’azienda veste legale e impulso imprenditoriale é stato nel 1938 il figlio di Francesco, Antonio Argiolas, assai intraprendente nel commercializzare la produzione di Monica, Nuragus e Cannonau, già avviata da suo padre, anche fuori della Sardegna: prima in Toscana, Lazio e Veneto, successivamente in Francia e in Germania. Vini di buon livello ma orfani della bottiglia, però, come quasi tutti quelli, anonimi invece anche sul piano organolettico, prodotti nell’isola. Proprio a causa della profonda crisi che il commercio di vino sfuso attraversò negli anni 80, molti vignaioli in Sardegna si convinsero ad abbandonare la viticoltura accettando i contributi che la Cee elargiva a chi espiantava le proprie viti. Antonio Argiolas, ritenendo che la qualità sarebbe stata pagante, prima o poi, scartò a priori quella soluzione, anche se avrebbe potuto arricchirsi senza muovere un dito. La svolta decisiva l’hanno impressa i suoi figli, Franco e Giuseppe, che, presa la guida dell’azienda, nel 1989 hanno convertito la produzione all’imbottigliamento. Decisivo é stato il loro incontro con Giacomo Tachis, padre della moderna enologia italiana, di cui il loro enologo Mariano Murru é allievo. E’ stato con l’assistenza di Tachis che i fratelli Argiolas hanno riconvertito i loro vigneti e sperimentato nuove strade in cantina, prime tappe di un percorso che li ha portati a imporsi in tutti i mercati del mondo. Se il successo si misura con le cifre, quelle dell’Argiolas possono testimoniarlo: l’azienda, che oggi dispone di 230 ettari di vigneto dislocati in quattro località, Serdiana, Selegas, Siurgus Donigala e Porto Pino, con i dieci tipi di vino che propone e la sua capacità produttiva annua di circa 2 milioni di bottiglie é diventata la punta di diamante per l’affermazione del vino sardo nel mondo. Il suo vino più rappresentativo, il carnoso Turriga, un Igt Isola dei Nuraghi, che nasce da un uvaggio di varietà autoctone, cannonau, carignano, bovale sardo e malvasia nera, é entrato nell’esclusivo club internazionale dei fuoriclasse, ma a costruire la fama del marchio contribuiscono anche il bianco secco Is Argiolas, un Vermentino di straordinaria stoffa, e il bianco dolce Angialis, in cui una piccola percentuale di malvasia accende gli aromi delle uve isolane di Nasco.
Arnaldo Caprai
Arnaldo CapraiBiography
L’azienda é nata nel 1971 quando Arnaldo Caprai, imprenditore tessile alla testa di un piccolo impero industriale a Serrafoligno, acquistò nella vicina Montefalco un’impresa agricola, la Val di Maggio, strutturata per svolgere un’attività promiscua ma dotata di un piccolo vigneto di 2/3 ettari circa. Imprenditore fuori del comune, Arnaldo Caprai era sempre stato attento non solo agli affari e al profitto ma anche ai risvolti culturali della sua attività: nel corso degli anni aveva raccolto la più grande collezione esistente in Italia di pizzi, merletti, fazzoletti antichi, ventagli, che utilizzava per organizzare mostre di grande interesse. I vigneti della Val di Maggio li aveva acquistati con lo stesso spirito: Montefalco é patria di un antico vitigno, il sagrantino, da cui si ricava, sembra fin dal Medio Evo, un rosso di grande impegno e di nobile struttura. E il piccolo vigneto di cui egli era venuto in possesso sorge proprio nel cuore della zona più vocata: nella località Torre. Però il Sagrantino era allora un vino pressochè sconosciuto fuori dell’Umbria: aveva bisogno di un produttore di qualità che fosse capace di farlo conoscere e di valorizzarlo. Caprai nutriva quest’ambizione ma doveva trovare un uomo capace di trasformarla in realtà. L’ha trovata nel figlio Marco, a cui ha affidato le sorti dell’azienda agricola nel 1988. Raramente un passaggio generazionale é stato così azzeccato: l’impulso vitale che Marco Caprai ha saputo imprimere alla Val di Maggio da quel momento ha superato ogni previsione. E’ stata sua, per esempio, la decisione di avviare nel 1989 la collaborazione con l’Istituto di coltivazioni arboree dell’Università di Milano, che ha consentito la creazione della più ricca banca dati esistente sul vitigno sagrantino. Operando con passione ma con scelte meditate, prese dopo aver consultato gli esperti più attendibili d’ogni settore, questo giovane tenace imprenditore non si é limitato a portare la propria azienda al successo, ma ha trascinando con sè tutto il territorio per spingere il Sagrantino alla ribalta dell’attenzione internazionale. C’é riuscito costruendogli l’immagine di un vino scaturito dalla tradizione ma capace di servirsi delle più moderne tecnologie di cantina, strutturato e possente ma anche attuale e moderno, e perciò morbido, rotondo, elegante, dai tannini dolci. Con 136 ettari di vigneto, Caprai produce oggi 750mila bottiglie all’anno: fa una decina di vini, ma il suo cavallo di battaglia resta sempre il Sagrantino. Eccelle soprattutto nella tipologia più ambiziosa, non passita, quella del rosso asciutto importante e longevo, e la declina in due versioni, il Collepiano e la Riserva 25 Anni.
Barone Ricasoli
Barone RicasoliBiography
Il Castello di Brolio é uno dei simboli della Toscana, quasi un “luogo sacro” del Chianti Classico. Qui molto tempo fa il Barone Bettino Ricasoli, il Barone di Ferro, mise a punto la ricetta del Chianti Classico che gettò le fondamenta di uno dei più grandi e longevi successi dell’enologia internazionale. Il castello, collocato in uno degli angoli più belli e aspri della regione, é circondato da vigne e da boschi. Nel corso dei secoli ha conosciuto molte vicissitudini. Alcuni anni fa era stato ceduto a una multinazionale, ma con un moto d’orgoglio Francesco Ricasoli, trentaduesimo Barone di Brolio, ha voluto riacquistarlo alla famiglia per riportarlo agli antichi splendori, Con un grandioso lavoro di rinnovamento nei vigneti, dove decine e decine di ettari sono stati reimpiantati con sistemi razionali e scarsamente produttivi; così anche l’antica cantina é stata ammodernata e ampliata per contenere le attrezzature, le botti e migliaia di barrique dove lungamente si affinano i vini di Brolio. Ricasoli é uno di quei produttori illuminati del Chianti Classico, che portano avanti l’idea dei Castelli del Chianti, cioé di unità produttive fortemente caratterizzate da un ben preciso terroir, un’idea che vuole essere la riproposizione del modello degli Chateau del Bordeaux in chiave assolutamente toscana. Perciò oltre al Chianti Classico Brolio che é il prodotto di base, il vino che meglio estrinseca la personalità dell’azienda e del suo territorio é senza dubbio il Chianti Classico Castello di Brolio, un vino che sorprende per la fittezza dei profumi e dei sapori, ma soprattutto per la morbidezza e l’eleganza. Di gran carattere la Riserva Rocca Guicciarda, un Chianti Classico che impressiona per la concentrazione e ricchezza del gusto. E certamente merita una menzione speciale il Casalferro, un cru monovarietale prodotto con uve Merlot provenienti dall’omonimo vitigno.
Bellavista
BellavistaBiography
Nel 1975, quando cominciò a comprare terreni e vigne in Franciacorta, nei dintorni di Erbusco, Vittorio Moretti aveva intenzione di costruire la casa in cui vivere con la famiglia: non per niente li acquistò sulla collina Bellavista, così denominata per lo splendido panorama che vi si gode. Aveva però anche un altro progetto: quello di produrre, nelle vigne intorno a casa, bottiglie d’alto pregio con cui fare a Natale regali esclusivi a clienti e fornitori. Allora, infatti, era semplicemente un imprenditore edile nato a Firenze e vissuto per 20 anni a Milano che aveva deciso di tornare a vivere nella terra d’origine della famiglia. Fondatore e titolare di un importante complesso specializzato nella prefabbricazione, forse aveva dimenticato di avere anche sangue contadino nelle vene. Ma se ne rese presto conto, e cambiò rapidamente idea: nel 1977 creò l’azienda vitivinicola Bellavista con l’esplicito obiettivo di produrre spumanti di tale livello qualitativo da poter competere con le più rinomate cuvèe di Champagne. Oggi può dire d’aver vinto la sfida: dispone di 187 ettari vitati, che gli permettono di produrre nella sua modernissima ed efficiente cantina 1 milione e 100mila bottiglie all’anno, ma, quel che più conta, il suo marchio é assurto a prestigio internazionale. Il successo se lo é garantito mettendo insieme un patrimonio di risorse non solo viticole e tecniche, ma anche umane, di prim’ordine: dal 1980 si é assicurato prima la consulenza e poi l’assistenza a tempo pieno di un tecnico di grande valore, Mattia Vezzola. E’ con lui che ha messo a punto la gamma di prodotti che hanno portato Bellavista a livelli qualitativi eccezionali. I suoi Franciacorta, il Gran Cuvèe Brut asciutto e morbido, il Pas Operè molto secco, il Satén dalla spuma abbondante e delicata, il Rosè con i suoi sentori di lampone, sono tra le migliori bollicine d’Italia. Ma anche i suoi vini fermi, soprattutto il sontuoso Uccellanda e il concentratissimo Convento della Santissima Annunciata, entrambi chardonnay 100%, godono di meritato prestigio. Dipende dalla cura maniacale con cui viene rispettata la materia prima: le uve sono raccolte a mano, pigiate e vinificate separatamente, parcella per parcella, al fine di mantenere integre le caratteristiche di ogni selezione. E al fine di garantire la massima genuinità del vino, con l’aiuto di Vezzola, Moretti é riuscito a realizzare uno dei suoi sogni, eliminando, nel limite del possibile, tutti i trattamenti chimici alle viti e al vino. Fa insomma vini biologici, ma senza strombazzarlo in etichetta.
Bertani
BertaniBiography
La casa vinicola Bertani fu fondata nel 1857 dai fratelli Giovanbattista e Giovanni Bertani a Quinto di Valpantena, in provincia di Verona. In Francia, Giovanbattista ebbe l’opportunità di conoscere Jules Guyot, filosofo e scienziato, inventore del sistema di potatura della vite più usato al mondo. Fu un incontro di enorme importanza, che ispirò ai Bertani il concetto di terroir e li spinse ad adottare le più avanzate tecniche di produzione al fine di valorizzare la loro produzione enologica. La casa raggiunse il massimo fulgore negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale sotto la guida della seconda generazione della famiglia, rappresentata da Guglielmo Bertani e da suo fratello Giovan Battista jr. Furono loro a espanderne l’attività fuori della Valpantena in tutte le zone vocate del Veronese: nel nord-ovest del Bardolino, nel nord-est del Soave Classico, dove fu creata nel 1928 una cantina di vinificazione a Monteforte d’Alpone, e nella zona classica della Valpolicella, dove fu acquisita nel 1957 la tenuta Novare, ad Arbizzano di Negrar, la più grande del territorio, con 225 ettari di terreno, di cui 60 a vigneto, con la cantina di Grezzana, cuore pulsante nonchè attuale sede della società, e uno dei più bei gioielli architettonici della zona, l’imponente villa edificata nel 1700 dal conte Luigi Trezza. Oggi la Bertani, ancora di proprietà dell’omonima famiglia, può disporre di oltre 130 ettari di vigneto in tutte le principali zone Doc veronesi. Il suo nome é però inscindibilmente legato alla produzione dell’Amarone; il fiore all’occhiello della casa é infatti l’Amarone della Valpolicella Classico, grande assemblaggio di corvina, rondinella e molinara che ha fatto storia nell’enologia italiana. L’Amarone Bertani si é imposto all’attenzione per le sue caratteristiche inconsuete: le 80mila bottiglie di produzione annua sono le sole che normalmente venivano poste in vendita nove-dieci anni dopo la vendemmia, di cui otto trascorsi in botte. Purtroppo in anni recenti é stato necessario abbreviare l’abituale periodo d’invecchiamento. Ma solo perchè la Bertani, unica anche in questo, non ha prodotto questo vino per due vendemmie consecutive giudicate inadatte, il 1991 e il ’92, e ha dovuto anticipare la vendita dei millesimi successivi per non restare assente dal mercato per un biennio. Di Amarone Bertani esiste un solo tipo. Come mai? La tesi dell’azienda é che per chiamarsi Amarone della Valpolicella esso dev’essere espressione dell’intero territorio. Ma poichè la Valpolicella si impernia su tre vallate che danno vini di caratteristiche abbastanza diverse, l’Amarone deve nascere da una cuvèe che ricostruisca la complessità dell’intera zona di produzione.
Biondi Santi
Biondi SantiBiography
La tenuta del Castello di Montepò, situata in Maremma a sud di Grosseto, sul parallelo della Fortezza di Talamone, é lontana da Montalcino. Come mai Jacopo Biondi Santi, ultima generazione della famiglia che ha inventato il Brunello, lo ha acquistato dalla nipote dello scrittore inglese Graham Greene per farne la sede della propria attività vinicola? Il motivo é semplice: a perpetuare la tradizione a Montalcino, seguendo la strada degli avi, ci pensa suo padre Franco, mentre lui sta perseguendo, fin dal 1991, un progetto diverso: produrre vini più vicini alle esigenze del mercato, senza però entrare in conflitto con l’immagine del Brunello di Montalcino a cui il suo nome é così strettamente legato. A partire dalla vendemmia 1991 ha prodotto perciò il Sassoalloro, ricavato dalle stesse uve del Brunello ma vinificate in modo innovativo. E con la vendemmia 1993 ha creato un altro SuperTuscan, lo Schidione, assemblando sangiovese, cabernet sauvignon e merlot. L’operazione é entrata in fase esecutiva con l’acquisizione di Montepò, presso cui si era procurato le uve per quei primi esperimenti: 360 ettari di terreno a grande vocazione vitivinicola dominati da un Castello, una fortezza medievale inespugnata nel corso dei secoli. Arroccato sulla sommità di un imponente rilievo, l’edificio militare fu ingentilito in parte durante il Rinascimento, ed é oggi in splendide condizioni perchè il marito della precedente proprietaria (che qualche anno anno fa é stato nominato direttore del British Museum di Londra) lo aveva riportato al primitivo splendore con un esemplare restauro. Jacopo Biondi Santi ha portato la superficie vitata a 220 ettari, impiantandovi il vitigno storico di famiglia, il sangiovese, ma anche varietà internazionali: cabernet sauvignon, merlot, sirah. La composizione dei terreni, la varietà dei microclimi e la vicinanza del mare rendono la tenuta adatta alla realizzazione di vini di altissimo livello, pienamente espressivi delle grandi potenzialità vitivinicole del territorio maremmano. Da un altro cru che Biondi Santi ha individuato é nato nel 1997 l’ultimo grande rosso della sua gamma, un Cabernet Sauvignon in purezza che ha battezzato con l’antico nome di Montepò: Montepaone. Ma questo puntare sui SuperTuscan non significa infrangere la tradizione famigliare? “Niente affatto”, sostiene lui: “in fondo il Brunello di Montalcino é nato da una trasgressione al modo di vinificare di un secolo fa, trasgressione deliberatamente compiuta dal mio bisnonno Ferruccio. Il quale, prima di diventare viticoltore, aveva combattuto con Garibaldi a Bezzecca nel 1866, quando aveva appena 17 anni. Non era un conformista, era un temperamento libero e ribelle. E io spero di assomigliargli almeno un po’”.
Braida
BraidaBiography
La storia dell’azienda Braida si identifica con l’avventura personale di uno dei più straordinari personaggi del mondo del vino, Giacomo Bologna. Cento chili e più d’irresistibile simpatia, una carica travolgente d’umanità, mascherata di sorridente ironia, un’esuberante forza vitalistica. A 16 anni aveva ereditato dal padre, morto prematuramente, un bel vigneto in Rocchetta Tanaro e, di diritto, il suo soprannome, Braida. Grazie forse a quel vigneto nutriva una fiducia illimitata nella varietà di vite più diffusa in Piemonte, quella di barbera, ancorchè fosse considerata volgarotta e plebea. Ma il vino che ne aveva tratto lui, il Bricco dell’Uccellone, era tutt’un’altra cosa. “Simile al suo patriarca Giacomo Bologna”, ha scritto il giornalista Burton Anderson, “questo Barbera invecchiato in barrique che prende il nome da una vigna sopra Rocchetta Tanaro a est di Asti é smisurato, forte, caldo, generoso, carico di fantasia e di temperamento e tuttavia convincente al primo assaggio, e certo di superare la prova del tempo”. Giacomo Bologna lo aveva progettato dopo un viaggio in California e dopo un incontro con Andrè Tschelitscheff, l’enologo americano d’origine russa ch’era considerato il più grande esperto del mondo nell’uso delle barriques. Queste esperienze lo avevano convinto che proprio la Barbera (lui la chiamava così, al femminile, come tutti i piemontesi), tanto povera di tannini e tanto ricca di acidità, avrebbe potuto raggiungere, con una lunga permanenza nella piccola botte da 225 litri in rovere del Massiccio Centrale francese, quell’aristocratico rango che nessuno era disposto, allora, a riconoscerle. E aveva ragione: presentato al Vinitaly nel 1985, il Bricco dell’Uccellone 1982 ottenne un successo leggendario, grazie al quale la Barbera é entrata per la prima volta nel club internazionale dei grandi vini di nobile schiatta. Come suo padre, é scomparso troppo presto, Giacomo Bologna, ma la sua azienda, la Braida, ha continuato il suo cammino sulla strada del successo. La gestiscono sua moglie Anna, da sempre amministratrice dell’impresa familiare, e i due figli: Beppe, enologo, e Raffaella, esuberante come il padre e come lui con il marketing nei cromosomi. Dal 1991 essi hanno deciso di imbottigliare una nuova Barbera, che Giacomo aveva progettato e seguito fino alla vendemmia, poco prima della scomparsa. E l’hanno battezzata con l’esclamazione che gli era sfuggita quando aveva assaggiato il mosto: “Ai Suma”. Tre sillabe che significano: “Ci siamo!”.
Ca’ del Bosco
Ca’ del BoscoBiography
Ca’ del Bosco, viticoltore e interprete pioniere fin dai primi anni ’70, è oggi tra le aziende leader nella produzione di Franciacorta.
Una storia suggestiva quella di Ca’ del Bosco che ha le sue origini a metà degli anni Sessanta, quando Annamaria Clementi Zanella acquista ad Erbusco in Franciacorta una piccola casa in collina, chiamata localmente “ca’ del bosc”, immersa in un fitto bosco di castagni.
Nel ’68 prende corpo l’idea di impiantare un vigneto e Maurizio Zanella, figlio di Annamaria, attuale Presidente di Ca’ del Bosco, si fa protagonista di un percorso enologico all’avanguardia.
Ca’ del Bosco ha definito la vocazione di una zona viticola – La Franciacorta – ovvero di un territorio che permette, soprattutto allo Chardonnay, di raggiungere una completa maturità con la massima concentrazione di aromi.
Il metodo Ca’ del Bosco asseconda la naturale tipicità delle uve che dipende dalla varietà e dalle tecniche di coltura della vite. La filosofia aziendale si basa sull’applicazione della tecnologia per ottenere i migliori vini possibili. Ogni partita di uva vendemmiata è una personalità unica, da rilevare e da orientare verso la sua migliore espressione.
L’obiettivo è sempre stato quello di creare una struttura dotata della tecnologia più avanzata legata alle tradizioni più nobili e di una immagine propria, elitaria, di grande spessore culturale nel contesto del sistema vino Italia.
In Ca’ del Bosco c’è un unico principio che comanda e definisce tutta la produzione, dalla scelta in vigna all’imbottigliamento. La qualità, o meglio, solo il livello più alto della qualità: l’eccellenza.
Castello d’Albola Zonin
Castello d’Albola ZoninBiography
Lo chiamano “banchiere di vino”, ma Gianni Zonin, il maggiore imprenditore privato italiano delle vigne, ha accettato di presiedere la Banca Popolare di Vicenza per spirito di servizio, e ne é rimasto alla guida grazie ai brillanti risultati ottenuti. Ma non lo ha fatto per passione: la sua vocazione é e resta la terra. Diplomato in enologia e laureato in giurisprudenza, dirige l’azienda familiare, a Gambellara, provincia di Vicenza, dal 1967, quand’é diventata società per azioni e lui ne é stato nominato presidente a soli 29 anni. Si deve alle sue intuizioni se l’impresa, fino allora esclusivamente vinicola, ha puntato da quel momento sui vigneti di proprietà come strumento per fare qualità, con la graduale acquisizione di grandi aziende agricole nelle regioni a maggior vocazione enoica, dal Friuli alla Toscana, dal Piemonte alla Lombardia, dalla Puglia alla Sicilia. Cosicchè la Zonin é diventata un gruppo che al grande stabilimento vinicolo di Gambellara affianca nove tenute di proprietà, otto in Italia e una in Virginia, negli Stati Uniti d’America, per complessivi 1.800 ettari di vigneto, dando lavoro a 350 dipendenti e producendo 23 milioni di bottiglie all’anno. La filosofia della Zonin é che la vera sfida non é quella di produrre vini buoni in piccole quantità a prezzo (necessariamente) elevato, ma di produrli in volumi tali che grazie a un prezzo più accessibile possano essere bevuti da un numero elevato di consumatori. Gianni Zonin questa sfida l’ha vinta: l’Acciaiolo, maestoso assemblaggio di sangiovese e cabernet sauvignon che produce a Radda in Chianti nell’azienda Castello d’Albola, é uno dei SuperTuscan di personalità più spiccata, e il Deliella, affascinante Nero d’Avola del Feudo Principi di Butera, uno dei vini di maggior prestigio della Sicilia.
Col d’Orcia
Col d’OrciaBiography
Col d’Orcia é una delle pochissime aziende vitivinicole di Montalcino che possono fregiarsi dell’aggettivo storico, in quanto già nel lontano 1933 presentava già ben tre annate di Brunello lungamente affinate alla prima Mostra dei Vini d’Italia che si tenne a Siena. Dal 1973 é di proprietà della famiglia piemontese oggi condotta dal conte Francesco Marone Cinzano, coadiuvato da Edoardo Virano che la funzione di amministratore delegato.
L’azienda, che ha un superficie di centinaia di ettari, é situata sul versante meridionale del Monte di Montalcino, l’area meglio esposta la sole, che é compresa tra il piccolo borgo di Sant’Angelo in Colle (frazione di Montalcino) e il fiume Orcia. I vigneti, quasi tutti rinnovati negli ultimi anni sono stati impiantati con la collaborazione dell’Università di Milano per la selezione delle zone migliori (con uno studio detto appunto di zonizzazione) e con l’Università di Firenze per la selezione clonale dei vitigni. La vinificazione segue criteri antichi che la moderna ricerca ha confermato essere ottimali per la produzione del Brunello di Montalcino: lunga macerazione a contatto delle bucce per almeno 25 giorni (che favorisce la completa estrazione dei polifenoli), a questa fa seguito un lungo affinamento in piccole botti di rovere che si protrae per tre anni, o per quattro per le riserve.
Molto interessanti sono il Rosso di Montalcino e il Brunello di Montalcino “normale”.
La punta di diamante resta tuttavia il Brunello Poggio al Vento Riserva che nasce nell’omonimo vigneto impiantato nel 1973, un Brunello che si produce solo nella annate migliori, che é considerato una pietra miliare, un rosso imponente, granitico, complesso ma di grande eleganza, con tannini finissimi e di una impressionante longevità. Tra gli altri vini della gamma merita una citazione l’Olmaia, un cabernet in purezza che serve a dimostrare come il terroir di Montalcino si presti ottimamente a ospitare vitigni alloctoni, ottenendo vini di grande levatura. Molto valido anche il Nearco, riuscito mix di merlot, syrah e cabernet, molto intenso e speziato. Infine ma non ultimo, il piacevolissimo e seducente Moscadello di Montalcino, un vino dolce da servire a fine pasto.
Conti Zecca
Conti ZeccaBiography
Un ruolo fondamentale nel processo di crescita qualitativa dell’enologia pugliese é stato stori-camente assunto dall’Azienda agricola Conti Zecca.La famiglia Zecca si trasferì da Napoli a Leveranno, in Salento, nel ‘500. Non si trattava di feudatari, ma di facoltosi agricoltori approdati in Puglia sulla scia di altre famiglie napoletane attirate dalla bontà dei terreni. La proprietà assunse particolare rilevanza a partire dal 1935, quando il conte Alcibiade Zecca, con imprendi-torialità e coraggio, attrezzò la cantina di moderni stru-menti e fece di Leverano uno dei centri commerciali più significativi del Salento. Oggi i fratelli Alcibiade, Francesco, Luciano e Mario, al timone della casa vinicola da diversi anni, sono tra i pochissimi agricoltori pugliesi che curano direttamente il ciclo completo del vino, dalla produzione delle uve alla vendita delle bottiglie. Il più immediato obiettivo aziendale consiste nel mantenere intatte, il più possibile, le caratteristiche dell’uva prodotta nella zona e di offrire sul mercato un vino di pregio, con ottimo rapporto qualità-prezzo. Nell’ambito di una selezione clonale molto accurata, la casa vinicola Zecca alterna varietà autoctone atte a fornire materia di altissima qualità, con varietà alloctone particolarmente predisposte a sposarsi con le prime. L’impronta moderna che l’Azienda ha assunto nel recente passato, aprendo le porte a importanti innovazioni tecnologiche relative a tutte le fasi della vinificazione, ha senza dubbio consentito di associare agli aspetti più tradizionali dell’enologia salentina, un’ottica imprenditoriale che ha consentito di ottenere significativi riconoscimenti a livello nazionale e internazionale.
I risultati raggiunti su alcuni vini sono davvero inco-raggianti; tra tutti si distinguono come Cru dell’azien-da la Riserva Cantalupi Doc Salice Salentino, blend di negroamaro con piccole aggiunte di malvasia nera, e il Nero Salento Igt, ricavato da uve negroamaro e cabernet sauvignon. Il primo specialmente merita un’attenzione particolare: ottenuta riducendo al minimo le rese per ettaro, questa Riserva matura almeno 12 mesi in botti di rovere da 12 ettolitri prima di essere imbottigliata, e assumere così un intenso colore rosso rubino tendente negli anni al granato e un sentore armonioso di frutti rossi e spezie molto persistente in bocca. Anche il secondo Cru, il Nero Salento, possiede caratteristiche di assoluta eccellenza, risultando potente e strutturato anche in ragione della lunga maturazione di 18 mesi in piccole botti di rovere francese seguita da almeno sei mesi di affinamento in bottiglia. In bocca, il tema dominante dei frutti rossi e delle spezie si sposa a meraviglia con note raffinate di vaniglia e liquirizia.
Domini Castellare di Castellina
Domini Castellare di CastellinaBiography
Castellare di Castellina é un’azienda di 90 ettari nel cuore del Chianti Classico, a Castellina, nata nel 1968 dalla fusione di cinque diversi poderi. Nel 1980 é stata acquistata da Paolo Panerai, che nel corso degli anni l’ha resa una delle più note realtà vitivinicole del Chianti Classico. Gli ettari di vigneto sono in totale 30, di cui 24 sulle colline di un anfiteatro naturale esposto a sud-est; la produzione é di circa 240mila bottiglie fra Docg e Igt Toscana. Prevalentemente rossi ma con tre bianchi ben strutturati, intensi e adatti anch’essi a un lungo invecchiamento. Le rese per ettaro, specialmente per i vini rossi, sono a Castellare al disotto dei disciplinari di produzione. Un censimento di viti, intrapreso subito dopo l’acquisto, ha consentito di selezionare le migliori specie di sangioveto, la nobile versione autoctona del sangiovese, e di malvasia nera, le varietà che consentono di fornire una caratterizzazione particolare soprattutto a I Sodi di S. Niccolò, il vino fiore all’occhiello di Castellare, che ha ottenuto i più alti riconoscimenti a livello mondiale, compresa la presenza per due volte consecutive nella 100 Top di Wine Spectator. La parola “sodi” veniva usata dai contadini toscani per descrivere quei terreni che dovevano essere lavorati a mano, essendo troppo duri (appunto sodi) o troppo ripidi per permettere l’impiego dei buoi.
I Sodi di S. Niccolò, proveniente dalle due migliori vigne (o anche cru) dell’azienda, é la dimostrazione che le varietà autoctone della zona possono dar vita a vini di elevatissimo profilo, senza l’ausilio di vitigni internazionali.
Da Castellare (che per questo ha cambiato nome in Domini Castellare di Castellina) in joint venture con Domain Baron de Rothschild-Lafite, é nata nel 2000 Rocca di Frassinello. Dalla cantina in Maremma, progettata da Renzo Piano, i primi vini messi in vendita sono quelli dell’annata 2004 curata dagli enologi Alessandro Cellai e Christian Le Sommer. Già l’annata 2005 ha ricevuto i massimi punteggi.
Donnafugata
DonnafugataBiography
Il nome Donnafugata, letteralmente “donna in fuga”, fa riferimento alla storia della regina asburgica Maria Carolina, consorte di Ferdinando IV di Borbone, che ai primi dell’800 fuggì dalla corte di Napoli per l’arrivo delle truppe napoleoniche di Murat e si rifugiò in Sicilia, nel cuore del Belice.
Fu poi lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo famoso romanzo Il Gattopardo, a indicare con il nome di Donnafugata i possedimenti di campagna del Principe di Salina.
L’Azienda Donnafugata nasce in realtà da una famiglia che da 150 anni ha fortemente creduto nelle straordinarie potenzialità enologiche della propria terra di origine.
Giacomo Rallo e la moglie Gabriella, siciliani Doc entrambi e convinti che per crescere e migliorare bisogna sempre essere aperti al cambiamento, nel 1983 hanno dato vita a un nuovo progetto, un’avventura imprenditoriale che prendendo l’avvio dalle storiche cantine di famiglia a Marsala e dalle vigne di Contessa Entellina, approdasse anche sull’Isola di Pantelleria per produrre vini improntati alla ricerca della qualità estrema.
Ai genitori oggi si sono affiancati nella gestione dell’azienda anche i figli, Josè ed Antonio, cosicchè l’azienda soprattutto negli anni più recenti ha fortemente accelerato il passo divenendo uno dei nomi simbolo della rinascita dell’enologia siciliana.
Un progetto che, puntando sulla cura maniacale dei particolari, potesse condurre verso obiettivi sempre più avanzati, valorizzando il territorio nel rispetto assoluto dell’ambiente e della tipicità siciliana.
A questa filosofia si sono ispirati a maggior ragione nella produzione dei propri vini di punta, i Cru di Contessa Entellina e di Pantelleria.
Il Mille e Una Notte é un rosso ottenuto dall’assemblaggio di nero d’Avola con piccole aggiunte di uve autoctone, dall’impenetrabile colore rosso rubino, avvolgente al naso e di buona struttura in bocca, il Vigna di Gabri é invece un bianco profumato, ansonica 100%, così chiamato perchè fortemente voluto da Gabriella Rallo, una delle più riuscite espressioni di ansonica in cui risaltano perfettamente le tipiche peculiarità di questo vitigno le cui non trascurabili potenzialità sono state in tempi recenti giustamente rivalutate.
E infine il Ben Ryé, figlio del vento in arabo, Passito di Pantelleria Doc, profondo e di grande complessità, é da tempo il fiore all’occhiello dell’azienda, e denota la sua straordinaria personalità e profondità fin dal colore giallo ambrato di una lucentezza straordinaria
Ferrari
FerrariBiography
Che il destino stia scritto nel nome? Sembra improbabile, però é un fatto che la Ferrari di Trento sta allo spumante proprio come la Ferrari di Maranello sta all’automobile: nel suo settore é il marchio allo stesso tempo più conosciuto e più prestigioso. Come l’industria automobilistica, anche l’azienda spumantiera porta il nome del fondatore ma non é gestita dai suoi discendenti. Anche perchè Giulio Ferrari, il trentino di nobile famiglia che aveva studiato viticoltura a Montpellier, si era perfezionato in Champagne e tornato alla città natale vi aveva fondato nel 1902 un’azienda per produrre vino con le bollicine, di eredi non ne aveva. Proprio per questo nel 1952, superata la settantina, aveva deciso di vendere l’impresa a Bruno Lunelli, che dopo aver fatto il garzone nella drogheria dei genitori di Cesare Battisti, l’irredentista impiccato dagli austriaci, aveva aperto una bottiglieria a due passi da casa sua, nei pressi del Duomo di Trento. In realtà, Ferrari continuò a occuparsi in prima persona dell’azienda fino al 1965, quando morì a 86 anni. Bruno Lunelli, invece, anche se ne aveva soltanto 63, cedette il bastone di comando ai figli quattro anni dopo, forse presago della fine che per lui sarebbe venuta troppo presto, nel 1973. L’ultima soddisfazione, due anni prima, aver visto inaugurare il nuovo stabilimento alle porte di Trento, presso il Ponte di Ravina. La leadership della Ferrari nella produzione dello spumante d’alta qualità é stata conquistata dall’opera tenace di tre dei suoi cinque figli: Gino, il presidente della società, Franco, che ha gestito l’Enoteca nei pressi del Duomo, e Mauro, l’enologo che ha messo a punto giovanissimo, nel 1972, la mitica Riserva del Fondatore, il blanc de blanc metodo classico Giulio Ferrari: una cuvèe di solo chardonnay, espressione di un singolo vigneto a Maso Pianizza, un autentico cru che, per la composizione della terra e il clima, può esser considerato un capolavoro della natura. Figlio soltanto di uve giunte a perfetta maturazione, si produce esclusivamente nelle annate migliori con un processo di maturazione sui propri lieviti che può durare anche dieci anni. Il frutto di tante attenzioni é uno spumante elegante, finissimo, di straordinaria longevità. E’ il vertice di una piramide produttiva di 4,8 milioni di bottiglie all’anno, e queste sono il core business di un piccolo impero di cui fan parte aziende agricole che producono vini fermi, l’acqua minerale Surgiva e la distilleria di grappa Segnana. A gestire il gruppo é oggi la terza generazione dei Lunelli, composta da tre cugini: Matteo, vicepresidente; Marcello, enologo; Camilla, responsabile relazioni esterne. E lei é la prima donna giunta ai vertici dell’azienda.
Feudi di San Gregorio
Feudi di San GregorioBiography
Molte università hanno studiato la “history case” di Feudi di San Gregorio, che nel volgere di tre lustri é diventata una delle aziende vitivinicole più importanti e famose del Mezzogiorno. Questo grazie a un progetto portato avanti con i giusti mezzi, chiarezza di obiettivi e molto determinazione dalle famiglie Ercolino e Capaldo. L’azienda prende il nome da San Gregorio, é una contrada in comune di Sorbo Serpico, piccolo centro dell’Irpinia, nei pressi di Taurasi (luogo eletto della Campania per il vitigno aglianico) a non molta distante dal Sannio e dalla Via Appia, nell’epicentro di quello che un tempo veniva chiamato Principato Ultimo.
In questa area il paesaggio é caratterizzato da colline a volte dolci a volte aspre, con un’altitudine compresa tra i 400 e i 600 metri, che hanno come minimo denominatore terreni con una riuscita miscela di strati sedimentari e ceneri vulcaniche) e climi particolarmente adatti alla coltura della vite. L’azienda dispone di una superficie superiore ai 100 ettari vitati, tutti coltivati con criteri rigorosi che privilegiano qualità a scapito della quantità. La cantina, non solo é funzionale e moderna, dotata del meglio della tecnologia, ma anche suggestiva e spettacolare, inserita in un contesto ambientale di grande pregio; al piano superiore dell’edificio funziona il ristorante Marennà, che in pochi anni é divenuto uno dei locali più quotati di tutta la regione. La gamma dei vini dei Feudi di San Gregorio é piuttosto articolata, ma ha dei vertici ben riconoscibili. Il primo senza’altro é il Patrimo, un merlot in purezza, che ha segnato una nuova strada nell’enologia campana, un vino morbido e complesso al tempo stesso. Ma é sui vitigni autoctoni, coltivati i in singoli cru, che meglio si riconosce la cifra stilistica dell’azienda: come nel Taurasi Riserva Piano di Montevergine, un rosso austero ed elegante al tempo stesso, e il Serpico (prende il nome dal monte sopra Sorbo Serpico), un aglianico più moderno, rotondo e avvolgente. Poi ci sono il Greco di Tufo Cutizzi, un bianco, sapido, concentrato, persistente, il Fiano di Avellino Pietracalda, un vino più di carattere, decisamente minerale. E infine il Campanaro, una riuscita miscela tra greco e fiano, che dà un vino davvero singolare.
Fontodi
FontodiBiography
La famiglia Manetti é celebre da molte generazioni nel Chianti, ma non per il vino: la sua notorietà é legata alla produzione del cotto dell’Impruneta. Fama più che giustificata: é stata proprio l’azienda di Domiziano e Dino Manetti a ricostruire le tegole per il restauro della cupola del Duomo di Firenze e a firmare il pavimento della Galleria degli Uffizi. Ma oggi é difficile dire se il loro nome é più conosciuto nel mondo per il cotto o per i vini, anche se la loro avventura enologica é cominciata in anni recenti. Il primo passo fu l’acquisto, nel 1968, dell’azienda agricola Fontodi, nel cuore della zona fiorentina del Chianti Classico, nei pressi della Pieve di San Leonino, nella vallata che si apre a sud di Panzano, denominata da secoli “Conca d’Oro” per la sua eccezionale posizione: i suoi sono terreni difficili, avari di uve, ma particolarmente vocati alla viticoltura. Il segno che qualcosa era cambiato, nel rapporto dei Manetti con quella che per loro era semplicemente la casa di campagna, si ebbe nel 1980, quando l’intera famiglia vi si trasferì. Era successo che a occuparsi, e con profondo impegno, delle vigne e dell’attività vinicola, erano stati i Manetti jr, i giovani figli di Dino, Giovanni e Marco, sia pure con la costante supervisione del padre e dello zio Domiziano. E difatti, con la vendemmia dell’anno successivo, 1981, accanto ai prodotti tradizionali, Chianti Classico e Chianti Classico Riserva, fu messo in cantiere un vino che avrebbe fatto sensazione, il Flaccianello della Pieve. A progettarlo, per conto dei giovani Manetti, fu un enologo giovane anch’esso, Franco Bernabei, ma di grandi ambizioni. Di sole uve sangioveto, ricavate dal vigneto meglio esposto della fattoria, il Flaccianello fu vinificato in modo allo stesso tempo tradizionale e innovativo: la fermentazione, cioé, fu fatta con prolungata macerazione delle bucce, ma a temperatura controllata. Dopo di che, a marzo, il vino fu posto a maturare in barrique, la piccola botte in rovere del Massiccio Centrale francese, e, dopo una sosta prolungata in legno, passò ad affinarsi altrettanto lungamente in bottiglia. Da allora, Fontodi ha fatto molta strada, la cantina é stata ampliata, altro terreno é stato acquisito(dei 110 ettari che contornano oggi l’azienda, 70 sono vitati, e la loro coltivazione segue i dettami dell’agricoltura biologica), nuovi vini sono stati realizzati, ma la fama dei Manetti é rimasta legata al Flaccianello della Pieve, che nelle grandi annate tocca vertici entusiasmanti. Fontodi non manca di vini di classe, come lo speziato Syrah Case Via e il Chianti Classico Riserva di un vigneto particolare, la Vigna del Sorbo. Ma il Flaccianello é un’altra cosa.
Franz Haas
Franz HaasBiography
Franz Haas, anzi Franziskus Haas per la precisione, rappresenta la settima generazione di Haas, nella cui famiglia dal 1880 i maschi portano tutti lo stesso nome, e tutti hanno nel sangue la stessa indomita passione per la vite, il vino e la precisione. Franz possiede la cantina a Montagna, piccolo paese in provincia di Bolzano sulla sinistra orografica dell’Adige, poco sopra Egna, e i suoi vigneti (una cinquantina di ettari in totale tra proprietà e affitto) sono distribuiti negli appezzamenti meglio esposti al sole e con i migliori suoli. Haas ha passato buona parte della sua vita a viaggiare per il mondo visitando le più importanti aree vitivinicole e poi a studiare le sue vigne, continuando a provare e sperimentare, nel tentativo di fare sempre meglio. Pur avendo raggiunto il successo internazionale, Haas non si è certo seduto sugli allori, ma continua a studiare per migliorare ogni anno – magari di pochissimo – i vini, perché la qualità assoluta è un obiettivo impossibile da raggiungere, ma da perseguire con passione. Il suo cuore batte per il Pinot Nero, un vitigno difficile da coltivare che solo poche volte e solo ai più capaci è in grado di regalare grandi risultati. Con la caparbietà che gli è propria, Franz nella Valle dell’Adige è riuscito ad ottenere ottimi risultati a cui si arriva soltanto in alcuni grandi cru della Borgogna. Ne sono testimonianza il Pinot Nero classico, ma soprattutto la selezione “Schweizer” così chiamato per l’etichetta che riproduce un’opera dell’artista trentino Riccardo Schweizer. Un bel vino dal colore rubino non troppo marcato, dal caratteristico profumo di piccoli frutti e frutta rossa e dal corpo sinuoso di grande eleganza. Accanto a questi ci sono il Lagrein, classico monovitigno sudtirolese, e l’Istante, un caratteristico uvaggio bordolese (Cabernet e Merlot). C’è anche una gamma di vini bianchi monovarietali – Pinot grigio, Müller Thurgau, Pinot Bianco e Gewürztraminer – che ha il suo prodotto più rappresentativo nel Manna (il nome è un omaggio a Maria Luisa Manna a cui ha dedicato il vino con la prima annata nel 1995), un vino capostipite che ha introdotto il concetto di cuvée in Alto Adige, cioè della miscelazione tra Riesling, Chardonnay, Kerner, Sauvignon e Gewürztraminer: un vino di carattere, strutturato e longevo come pochi altri bianchi del Nord Italia. Completa la gamma un originalissimo e profumatissimo Moscato Rosa ottenuto dall’appassimento delle omonime uve.
Leone de Castris
Leone de CastrisBiography
Con Piernicola Leone de Castris é entrata in campo la più giovane generazione di una dinastia che nei vini del Salento opera da più di tre secoli. Era il 1665 quando un suo avo, il duca Oronzo Arcangelo Maria Francesco, conte di Lemos e nipote di Ferrante e Francisco, entrambi vicerè spagnoli in Italia, creò a Salice Salentino una cantina. Con risultati talmente soddisfacenti da convincerlo a vendere i possedimenti che aveva in Spagna per investire il ricavato in terre salentine fino a creare un piccolo impero di 5mila ettari. La cantina di 2mila metri quadrati da lui creata nel XVII secolo é oggi un enorme parallelepipedo bianco e rosa confetto che si estende su 40mila metri quadrati e comprende vari edifici, sovrastati da un torrione squadrato. A Salice la chiamano familiarmente “l’azienda di don Pierino”. Don Pierino era il nonno di Piernicola, Piero Leone Plantera, che aveva sposato donna Lisetta dei conti de Castris, ultima e unica erede della cantina. Don Pierino ha segnato profondamente la storia della Leone de Castris nel 1900, fino agli anni 60. E’ stato lui che l’ha trasformata in un’azienda moderna: aveva cominciato a commercializzare in bottiglia i suoi vini fin dal 1925, quando perfino nel Nord Italia venivano ancora venduti sfusi, in botte o in damigiana. Il Five Roses, il suo prodotto più conosciuto, é stato anzi il primo rosato a essere imbottigliato in Italia. Questo però é avvenuto più tardi, il penultimo anno della Seconda guerra mondiale, quando l’Italia del Nord era ancora occupata dai nazisti. Il generale Charles Poletti, commissario per gli approvvigionamenti delle forze alleate, aveva ordinato alla Leone de Castris una grossa fornitura di vino rosato. Lo pretendeva però con una denominazione americana. Il Five Roses nacque così, prendendo il nome da una contrada del feudo di Salice Salentino chiamata Cinque Rose perchè per parecchie generazioni ogni de Castris aveva avuto cinque figli. Chiamato dal padre, Salvatore, a occuparsi dell’organizzazione commerciale, Piernicola Leone de Castris alla fine degli anni 90 del secolo scorso ha assunto la direzione generale dell’azienda. Le ha praticato una iniezione di dinamismo, rinnovando la cantina e i vigneti, sperimentando nuovi vitigni anche se ha continuato a puntare su quelli tradizionali. Le più grosse soddisfazioni, difatti, le ha ottenute con il negroamaro, la varietà tipica del Salento, che é alla base del Donna Lisa, la riserva di Salice Salentino Doc firmata Leone de Castris che ha ottenuto numerosi riconoscimenti: é un grande rosso con sentori di ciliegia e note di tabacco e di spezie, morbido come il velluto, in cui il Salento esprime molta della sua potenzialità.