Arte del vino e vino nell’arte:
Caravaggio e i segreti di Bacco fra miti pagani e simbologia cristiana
Ebbrezza pagana e inebriamento mistico, eterna adolescenza e giovinezza divina, mitologie ellenistiche ed erudite interpretazioni cattoliche si intrecciano quasi inestricabilmente in una delle creazioni più memorabili della pittura europea all’alba del Seicento, quel fascinoso Bacco, conservato nella Galleria degli Uffizi, a Firenze, con il quale Caravaggio conquista la brillante società aristocratica romana offrendole un tema d’allusiva classicità e, insieme, un dotto repertorio di simboli sacri e profani di sicura attualità nei cenacoli alla moda della città pontificia.
Fondendo con sensuale virtuosismo due tradizioni iconografiche apparentemente opposte e distanti, Caravaggio crea per il suo raffinato protettore e mecenate, il cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte, potentissimo rappresentante del granduca Ferdinando I de’ Medici presso la Santa Sede, un’opera in cui un sorprendente ritratto dal vero di giovinetto in posa teatrale si unisce ad una altrettanto innovativa natura morta di matrice leonardesco-lombarda, celebrando con scaltrita genialità il potere incantatorio e quasi magico d’una pittura dal vero che inganni i sensi e seduca la mente, veicolando nel contempo edificanti e inattesi valori cristiani.
Il volto e le mani realisticamente abbronzate del modello, le sue unghie orlate di nero, la frutta sin troppo matura e quasi marcescente, a comporre un’antologia vegetale manifestamente simbolica dinanzi al Bacco, con una spettacolare mela impietosamente bacata che anticipa di poco quella della celeberrima Canestra di Frutta della Pinacoteca Ambrosiana di Milano; la magistrale caraffa di vetro soffiato colma per metà di vino, dove batte perentoria la luce proveniente da sinistra, assieme al calice allusivamente offerto dal giovane allo spettatore ormai rapito, con il liquido color granato che tremola e descrive cerchi concentrici nell’imminenza dell’omaggio, declinano tutte le varianti e le possibilità espressive d’una istantaneità solo apparente, che composta in mirabile forma teatrale svela e occulta un accuratissimo studio ed una preziosa duplicità di significati, particolarmente graditi all’erudito committente.
Ancora una volta, la straordinaria natura morta resa con virtuosistica perizia a ingannar lo sguardo e a soggiogare la mente del riguardante, adempie, come di consueto nell’opera giovanile di Caravaggio, a più livelli semantici dottamente interconnessi.
Se è vero che il giovane pittore milanese aveva affermato che non ci vuole minor perizia a rappresentar frutta e fiori che a ritrarre teste di santi, allora la ferrea gerarchia di generi pittorici ineluttabilmente codificata e supinamente accettata da maestri e mestieranti viene, da questo momento in poi, orgogliosamente sovvertita: il volto e lo sguardo intensamente allusivi di Bacco non sono più importanti della coppa di vino in vetro soffiato che il dio offre allo spettatore, e la superba melagrana spaccata o la turgida mela cotogna aureolate di foglie di fico hanno la stessa dignità e personalità del giovane olimpico retrostante.
La corona di foglie di vite che adorna il capo di Bacco, in parte arrossate e maculate di bruno ad attestare il lavorìo inarrestabile del Tempo, corredata da piccoli grappoli d’uva bianca e nera, trasparente metafora di morte e resurrezione, riveste con evidenza lo stesso status d’interesse del divino protagonista, in un gioco di rimandi fra verità e simbolo che obbliga l’osservatore a non reputare alcuna immagine inferiore o di minor pregio rispetto all’altra nell’economia della tela, e inaugurando di fatto una nuova e onnicomprensiva modalità di visione, più spregiudicata e più moderna, che è giunta intatta sino a noi.
Raffinata allegoria di almeno quattro dei cinque sensi, dove il gusto, del vino e della frutta non oscura il tatto, con la resa perfetta di carne vellutata e nitide superfici di vetro, e l’inganno della vista, in virtù della perentorietà tridimensionale dell’intera costruzione, non cede alla sollecitazione olfattiva dei tanti profumi, tra dolce e speziato, evocati da pomi polposi, pere oltremature e fichi violacei che traboccano dalla fruttiera in ceramica sapientemente allestita da Caravaggio, il quadro è anche una preziosa metafora cristologica certamente apprezzata e forse indirizzata dallo stesso cardinal Del Monte, quasi un quadro a rebus secondo il gusto erudito dell’epoca.
Bacco, o meglio Dioniso, dove l’originale denominazione greca già evoca immediate assonanze con i fondamenti cristiani, era tradizionalmente interpretato come una prefigurazione ideale o un annuncio misterico del Redentore, proprio in virtù della vicenda di morte e rinascita che ne aveva segnato il destino, quando la madre Semele, che mal consigliata aveva ad ogni costo voluto ammirare il suo amante Zeus in tutto il suo fulgore, era stata fulminata dalla luce sovrannaturale emanata dal padre degli dei, e Zeus si era affrettato ad estrarre dal grembo della sventurata il piccolo prematuro per cucirselo nella coscia come in un’improvvisata incubatrice e farlo rinascere, al termine naturale della gravidanza, perfettamente sano e formato.
Proprio questo singolare atto di nascita, assieme all’invenzione a lui tradizionalmente attribuita del Vino, elisir di Dioniso e sangue di Cristo insieme, aveva portato i più scaltriti interpreti del Neoplatonismo rinascimentale, ancora di gran voga in Italia ed in Francia, come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, a cristianizzarne definitivamente figura ed attributi, vedendo nell’ebbrezza propiziata dalla sua bevanda una metafora di quella “Ubriachezza Spirituale” di cui già i Padri della Chiesa avevano parlato nei loro commenti al Cantico dei Cantici.
Protagonista del celeberrimo poemetto, parte dell’Antico testamento e tradizionalmente attribuito a Salomone, è lo Sposo, che canta con intenso lirismo il suo amore ricambiato per la Sposa, interpretato allegoricamente dai più dotti esegeti cristiani come il vincolo d’amore assoluto fra Cristo e la sua Chiesa; e proprio i caratteri distintivi dello Sposo, la sua soavità e la sua estenuata vaghezza, i suoi capelli neri in contrasto con la carnagione lattea, celebrati dalla Sposa con accenti perdutamente sensuali, e l’analogia del sentimento stesso con la voluttà d’un frutto maturo, si incarnano a perfezione nella figura e nelle fattezze del Bacco effigiato da Caravaggio:
“Il mio diletto è candido e rubicondo, riconoscibile fra mille. I suoi riccioli sono come grappoli di palma, neri come il corvo…le sue braccia sono come oro tornito, il suo busto è d’avorio…il mio diletto, fra i giovani, è come un melo nel bosco e il suo frutto è dolce alla mia gola. Ristoratemi di fiori, saziatemi di mele e di frutta…”.
Chiome nere come l’ala d’un corvo, candore d’incarnato, vaghezza di sguardi, fichi e melograni, mele ed uva costantemente evocati e, insieme, l’invito agli amici a bere a volontà dalla coppa:
“Il fico ha generato i suoi frutti: le vigne fiorenti hanno sparso il loro profumo. Levati amica mia, mia bella, e vieni…Ho bevuto il mio vino e il mio latte; mangiate anche voi, amici carissimi, bevete ed ubriacatevi.”
“La tazza misteriosa”, commentava a tal proposito Sant’Ambrogio, “è come tornita dall’autore stesso della nostra fede, cioè perfettissima e piena sempre di un liquore affatto spirituale e celeste. Giacché la Chiesa ha del vino nella sua tazza, che rallegra il cuore dell’uomo”.
I due livelli interpretativi interconnessi: quello più propriamente pagano e profano, e quello cristiano o d’ispirazione cristiana, si fondono senza soverchio sforzo nell’opera di Caravaggio, soprattutto se il modello è quel Bacco creato da Leonardo intorno al 1515 e ben presto replicato in fortunate copie certamente note al pittore milanese, dove le due letture si integrano con raffinata ambiguità.
Leonardo aveva sempre rappresentato un modello ideale ineliminabile per il giovane Caravaggio, vuoi per l’attenzione quasi ossessiva alla verità delle luci e dei corpi, rigorosamente ritratti al naturale, vuoi per la geniale attualizzazione del simbolo, che si incarna sempre in un oggetto evocato con straordinario e ingannevole realismo; mentre dallo stesso Caravaggio e dalla sua entusiasmante ricerca naturalistica deriva la magnifica tela di Velàzquez del 1629: Bacco con Otto Devoti ovvero i Beoni, che declina con appassionata teatralità ma senza erudite allegorie il verbo innovativo del maestro lombardo, mettendolo al servizio di quella letteratura picaresca che Francisco de Quevedo, Miguel de Cervantes e l’anonimo autore del Lazarillo de Tormes avevano elaborato come risposta polemica alla cristallizzata gerarchia dei generi narrativi, ponendo così i fondamenti laici e spregiudicati del romanzo moderno.
Gli otto picari in farsetto sbottonato, mantello liso e pugnale da canaglia sulle reni, che fanno ala ad un Bacco dichiaratamente erede di quello di Caravaggio, si volgono con comica devozione al dio, porgono un bicchiere colmo, si inchinano per esser coronati di tralci di vite e guardano fissamente lo spettatore, ostentando volti segnati e umili vesti ben lontane dalle norme tradizionali del decoroso e del moralmente rappresentabile, inaugurando così, di fatto, nella ultraconservatrice arte di corte spagnola, il verbo innovativo e dirompente della Verità ad ogni costo.
Poi anche il raffinato Vermeer giocherà la carta del binomio vino-trasgressione, sempre sull’onda del folgorante realismo caravaggesco, ma con una scaltrita perizia e una connotazione moralistica in fondo ancora conformi all’etica calvinista dell’epoca. Solo l’artista lombardo saprà conferire alla sua opera quel respiro e quella sorprendente duplicità dove laico e religioso s’incontrano senza retorica e senza affettazione, in una mirabile alchimia che rende il messaggio cristiano così attuale e suggestivamente persuasivo.
Ancora una volta la nera leggenda d’un Caravaggio ateo e irriverente, sordido nell’approccio al divino e ribelle eternamente all’ortodossia cattolica si rivela esattamente per quel che è: un’interpretazione calunniosa e malevola, abilmente indotta dai suoi detrattori contemporanei e, insieme, il frutto d’una interpretazione arbitraria e modernizzante che, ignorando completamente codici iconologici e valori simbolici ampiamente diffusi e condivisi fra Cinque e Seicento, rielabora in forma pseudoromantica l’opera del pittore, ben altrimenti ispirata ad una dolente e appassionata tensione religiosa, prossima ai fautori d’una chiesa povera e vicina alle sofferenze degli umili e dei reietti, come quella promossa dal cardinal Federigo Borromeo o da San Filippo Neri. Questo non sottrare nulla alla straordinaria e calibrata ambiguità dell’opera in esame: il ragazzo è un vero modello con mani e il volto arrossati dall’esposizione all’aria e alla luce, ma è anche un perfetto e allegorico Bacco, la frutta in parte aggredita dal tempo e dai parassiti è frutta autentica e mirabilmente rappresentata, ma anche spettacolare metafora della caducità dei beni terreni impietosamente corrotti dal prosaico trascorrere dei giorni, la luce che esalta tridimensionalmente l’intera scena è vera luce soffusa, ma anche la Luce della Verità e della Fede, in un gioco sapiente e irripetibile ancor oggi, dove il potere della verità, umana e cristiana, è secondario soltanto all’abilità, quella sì quasi divina, d’un artista d’inimitabile grandezza.
Vittorio Maria de Bonis